L’ospedale, quella mattina, sembrava respirare un’aria diversa. Non era solo il consueto via vai di medici e infermieri, ma una tensione sottile, invisibile, che serpeggiava tra corridoi e sale d’attesa. Jale avanzava con passo deciso, stringendo tra le mani una cartellina che custodiva una verità capace di cambiare tutto per Bahar. I test di compatibilità del midollo erano terminati e il destino della giovane ora era racchiuso in pochi fogli. Il tempo non giocava a favore, e la dottoressa lo sapeva bene.
Dopo aver convocato d’urgenza Atice ed Enver, Jale li accolse nel suo studio con un sorriso misurato. Poi, finalmente, pronunciò le parole che tutti aspettavano: “Abbiamo trovato un midollo compatibile con Bahar”. Un raggio di speranza attraversò il volto di Enver, convinto che il peggio fosse ormai alle spalle. Ma la verità portava con sé un’ombra: il donatore era Sirin.
Per Enver, questo non era un ostacolo: “È nostra figlia, certo che lo farà.” Ma Atice non condivideva l’ottimismo del marito. Sirin era instabile, imprevedibile, e nessuno poteva costringerla. Il medico stesso aveva messo in guardia la famiglia: niente pressioni, solo pazienza e delicatezza. Eppure Enver era convinto di poterla convincere, ignorando gli avvertimenti della moglie.
La discussione tra i due degenerò rapidamente. Atice temeva che chiedere a Sirin significasse scatenare un nuovo incubo, mentre Enver vedeva in lei la salvezza di Bahar. Le parole si fecero taglienti, le accuse personali affiorarono, fino a una rottura definitiva: “Voglio il divorzio”, dichiarò Enver, lasciando Atice stordita e sola in un corridoio d’ospedale che sembrava improvvisamente più freddo.
Ma la questione non era solo medica: era una ferita familiare profonda. Bahar stessa, ricordando un episodio doloroso con la sorella, fu chiara. Tempo addietro, si era recata da Sirin per chiedere spiegazioni su Sarp. La risposta era stata un misto di crudeltà e violenza: parole gelide, un sorriso di disprezzo, e poi una spinta che l’aveva fatta cadere dolorante contro un muro. Da quel giorno, Bahar aveva giurato a se stessa che non avrebbe mai accettato nulla da Sirin.
Così, quando la possibilità di un trapianto si presentò, la sua risposta fu netta: “Piuttosto muoio.” Non si trattava solo di orgoglio, ma di dignità. Accettare quel midollo sarebbe stato, per lei, come piegarsi alla persona che più l’aveva ferita.
Nel frattempo, Enver andò da Sirin, deciso a farle cambiare idea. La trovò calma, quasi compiaciuta, come se sapesse di avere in mano le redini del destino di tutti. Ascoltò le parole del padre, ma il suo sorriso lasciava intuire che la sua eventuale disponibilità non sarebbe stata gratuita. “Potrei accettare… ma a una condizione,” disse con tono mellifluo, rifiutandosi di rivelare quale fosse.
Quella promessa velata suonava più come una minaccia. Sirin non stava pensando alla salute della sorella, ma a come sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Per lei, questa era un’occasione per rimettere se stessa al centro della scena, per invertire i ruoli e far capire a tutti chi aveva davvero il potere.
La notte calò sulla città, ma nessuno dei protagonisti riuscì a dormire. Bahar fissava il soffitto, tormentata dall’idea che la sua vita potesse dipendere da chi le aveva causato tanto dolore. Atice, seduta sul divano con una tazza ormai fredda tra le mani, riviveva le parole di Enver: “Voglio il divorzio.” E si chiedeva se fossero frutto della rabbia o di una decisione irrevocabile.
Enver, invece, restava in officina, combattuto tra la speranza che Sirin avesse parlato con sincerità e il sospetto che, come sempre, agisse per tornaconto personale. Jale, camminando nei corridoi vuoti dell’ospedale, sentiva il peso della responsabilità gravarle sulle spalle: ogni mossa, ogni parola avrebbe potuto decidere la sorte di Bahar.
E Sirin, sola nella sua stanza, sorrideva tra sé: “Vediamo chi avrà davvero bisogno di chi”. La sua mente era un intricato labirinto dove il confine tra amore e odio si era dissolto da tempo.